Il centenario della nascita di Giovanni Sartori
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Giovanni Sartori, unanimemente considerato il padre della scienza politica in Italia. Con lui iniziò ad essere usato il termine “politologia”, che prima aveva poco corso nel nostro Paese, dove prevaleva anche nell’ambito degli studi politici una cultura di tipo storicista. Nato a Firenze nel 1924 e spentosi a Roma nel 2017, fece grande impressione la pubblicazione, nel 1957, del suo capolavoro Democrazia e definizioni per i tipi de Il Mulino. Si trattava di un libro nuovo poiché lo studioso, distaccandosi per l’appunto dai canoni dello storicismo, proponeva un approccio vicino a quello della tradizione analitica anglo-americana, attenta all’utilizzo della logica e ai ragionamenti di tipo formale. Sartori aveva letto in gioventù Hegel e Croce, ma in seguito si staccò da filosofi di quel tipo passando ai pensatori della scuola inglese, scozzese e americana. Divenne ben presto celebre anche a livello internazionale quando pubblicò il saggio Parties and Party Systems, scritto in lingua inglese e uscito nel 1976 presso la Cambridge University Press. Proprio allora, infastidito dalla contestazione studentesca, iniziò a insegnare negli Stati Uniti, dapprima all’Università di Stanford in California e poi alla Columbia University di New York. Nel 1971 fondò la Rivista italiana di Scienza Politica, attiva ancora oggi, e divenne uno stimato editorialista del “Corriere della Sera”. Mantenendo sempre uno stile analitico assai diverso da quello storicista, si dedicò anche alla metodologa e alla filosofia delle scienze storico-sociali ripercorrendo la strada di Max Weber. Nel 1979 uscì presso la SugarCo La politica. Logica e metodo in scienze sociali. Pur essendo evidente la grandezza e l’originalità dei suoi contributi, occorre porsi una domanda: è lecito usare l’espressione “Scienza della politica”? E fino a che punto può la stessa politica essere analizzata con metodi scientifici e logici precisi? Sartori non nutriva dubbi in proposito. A suo avviso la logica formale, intesa come teoria del ragionamento valido, era perfettamente applicabile alla politica, concepita come attività pratica che si può sottoporre a studio sistematico. È tuttavia evidente che la politica stessa è spesso irrazionale, e molti dubitano che la logica possa servire in questo campo. Leggi tutto: Il centenario della nascita di Giovanni Sartori Il dialogo fecondo tra scienziati e filosofi
Gli scienziati sentono spesso la necessità di trarre conclusioni filosofiche dalle loro scoperte e di diffonderle tra i non specialisti. Non si tratta certo di una novità. Scienza e filosofia hanno marciato insieme sin dalle origini del pensiero occidentale, quando una distinzione chiara tra le due non era possibile. Molti grandi filosofi furono al contempo scienziati di valore. Si pensi, per citare solo pochi nomi, a Descartes, Pascal e Leibniz. Meno noto – ma altrettanto significativo – il fatto che alcuni scienziati di prima grandezza si siano dedicati alacremente a ricerche di tipo filosofico. Qui l’esempio maggiore è Isaac Newton, che fu pure cultore di studi esoterici centrati sull’alchimia. In epoca contemporanea, quando la specializzazione nella scienza è giunta all’apice, parecchi scienziati (in particolare fisici teorici) hanno sentito l’esigenza di scrivere opere filosofiche per spiegare al grande pubblico il senso delle loro ricerche. Sono soprattutto celebri alcuni libri di Albert Einstein: Come io vedo il mondo, Autobiografia scientifica, Il significato della relatività, etc. Senza scordare opere ormai classiche di altri autori come Fisica e filosofia di Werner Heisenberg e I quanti e la vita di Niels Bohr. Non è raro veder classificare gli autori appena menzionati come “filosofi della scienza” oltre che come scienziati. La reazione del mondo filosofico a fronte di tale situazione è stata discordante. Alcuni hanno accettato l’inclusione degli scienziati nei dizionari di filosofia adottando i loro testi nei corsi e spronando gli studenti a leggerli con attenzione. Altri hanno preferito insistere sulle molte e inevitabili ingenuità commesse dagli scienziati quando si trasformano in filosofi, sottolineando i difetti e trascurando i pregi. Credo che il primo atteggiamento sia quello giusto. L’immaginaria vicenda delle isole di Pelagosa “colonizzate dai Borbone e dimenticate dai Savoia”
In molte pubblicazioni e pagine web riguardanti l’isola di Pelagosa, con gli isolotti e scogli vicini, definita anche “arcipelago di Pelagosa”, “isole di Pelagosa”, “isole Pelagose”, o “Palagruza” in croato (nel complesso 0,4 kmq, più vicine alla costa continentale italiana del Gargano che a quella croata, ma leggermente più vicine all’isola croata di Susac/Cazza che non a quella italiana di Pianosa, arcipelago delle Tremiti), è riportata una narrazione simile alla seguente: «Quando i Savoia si dimenticarono di annettersi l’arcipelago.(…) Le isole appartennero poi alla Serenissima, che però non vi installarono (sic) alcuna popolazione e non esercitarono alcuna sovranità se non per contrastare il nobile Lusignan (…). In seguito l’arcipelago di Pelagosa fece parte del Regno delle Due Sicilie e costituì l’avamposto più remoto nell’Adriatico. Amministrativamente fu riunito alla provincia della Capitanata (il vecchio nome della provincia di Foggia), alla quale appartenne fino alla caduta dei Borbone (1861). A Pelagosa si parlava il napoletano (dialetto ischitano): questo è spiegabile in quanto l’isola fu ripopolata (assieme alle vicine isole Tremiti) da Ferdinando II del Regno delle Due Sicilie nel 1843 con pescatori provenienti da Ischia, che vi continuarono a parlare il dialetto d’origine. Con l’avvento del Regno d’Italia l’incuria e l’inefficienza delle nuove istituzioni nazionali fecero sì che i pescatori emigrassero tutti entro la fine dell’Ottocento. L’annessione del Regno delle Due Sicilie alla nascente Italia non portò bene alle Pelagose: i Savoia dimenticarono infatti di annetterselo (sic), e abbandonarono le isole al loro destino.»1 Durata e qualità della vita. Una dicotomia da evitare
Jeanne Calment, era nata ad Arles, una cittadina francese citata da Giulio Cesare nel De bello Gallico, il 21 febbraio 1875 e morta nello stesso luogo il 4 agosto 1997 a centoventidue anni, la durata di vita maggiore finora registrata, documentata da certificati di nascita e morte. Aveva il gusto della vita, smesso di andare in bicicletta a 100, di fumare a 118, non aveva rinunciato al vino ed alla cioccolata, l’aveva certo aiutata esser nata benestante. Negli ultimi anni aveva perduto gran parte dell’udito e della vista, ma era rimasta lucida e spiritosa fino alla morte. Aveva sofferto anche di depressione, ma l’attribuiva al fatto di non essere più ricercata rispetto al passato quando la sua longevità le aveva procurato fama mondiale. La durata della vita di Jeanne Calment è per alcuni un traguardo non solo raggiungibile, ma addirittura superabile constatato il continuo aumento dell’aspettativa di vita. Nel mondo, dal 1990 al 2015, per le donne è passata da 67 a 73 anni; negli uomini da 62 a 68; in Italia, come negli altri Paesi industrializzati, è ancora maggiore, da 80 a 85 anni per le donne, da 74 a 80 per gli uomini. Leggi tutto: Durata e qualità della vita. Una dicotomia da evitare Ucraina: i Neocon hanno fallito, Victoria Nuland si ritira dal teatro di guerra
Il segretario di Stato americano per gli affari politici, Victoria Nuland ha fallito, il braccio armato di Anthony Blinken, lascerà l'amministrazione di Joe Biden nel bel mezzo della guerra in Ucraina e della campagna elettorale statunitense. L'annuncio dato dallo stesso Segretario di Stato, Anthony Blinken, lo scorso 5 marzo 2024, ha dato adito a tutta una serie di teorie sui motivi delle sue dimissioni, che ovviamente non vengono rivelati nel comunicato ufficiale.1 Il comunicato ufficiale si limita ai soliti elogi di circostanza per i trentacinque anni di onorato servizio pubblico sotto sei presidenti e dieci segretari di Stato, servizio reso con “feroce passione” nel combattere per i valori in cui crede di più: libertà, democrazia, diritti umani, ma soprattutto la capacità degli USA di ispirare questi valori e promuoverli in ogni angolo del mondo. Continua Blinken: «C'è così tanto da ammirare in lei al di là della funzione diplomatica che sarà la leadership di Nuland espressa in Ucraina quello che i diplomatici, gli studenti di politica estera, e i giornalisti d’inchiesta studieranno per gli anni a venire». Leggi tutto: Ucraina: i Neocon hanno fallito, Victoria Nuland si ritira dal teatro di guerra Altri articoli... |
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