Realtà naturale e mondo umano
Non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra la realtà e la conoscenza che ne abbiamo. Per quanto attraente tale prospettiva possa sembrare, essa si rivela assai difficile da perseguire per chiunque intenda esplicitare tale distinzione senza partire da dogmi precostituiti. Si può ad esempio ammettere che vi sia una distinzione tra il mondo naturale da un lato e quello linguistico e sociale dall’altro. Tuttavia, non è difficile comprendere che storicamente abbiamo cominciato a identificare noi stessi e gli oggetti che ci circondano solo quando il mondo linguistico e sociale è emerso da quello naturale, il che significa che gli stessi nostri criteri di identificazione sono, in sostanza, socio-linguistici. Si noti che una simile constatazione non implica affatto l’identità totale tra i due mondi. Più semplicemente, essa porta a concludere che nel parlare del mondo naturale in se stesso, accettandone l’esistenza indipendente dalla mente, dobbiamo essere prudenti. La ragione fondamentale di questo stato di cose è spiegata da un duplice fatto. Da un lato la concettualizzazione è la nostra via d’accesso al mondo, e dall’altro essa costituisce pure la caratteristica più importante della nostra evoluzione culturale (in quanto distinta da quella biologica). Ciò non significa sminuire l’importanza di quest’ultima, che è connessa al mondo naturale e senza dubbio precede l’evoluzione culturale dal punto di vista cronologico. Ma è pur sempre l’evoluzione culturale che ci differenzia in modo primario da tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono l’ambiente fisico. Se sembra assurdo ipotizzare che la mente produca la realtà naturale, assai meno azzardata appare la tesi secondo cui questa stessa realtà è da noi percepita mediante il filtro di un apparato concettuale, il quale è a sua volta cresciuto in sintonia con lo sviluppo del linguaggio e dell’organizzazione sociale. La questione venne compresa in tutta la sua portata agli inizi del secolo scorso da William James il quale, nel corso di una celebre conferenza tenuta nel 1907 alla Columbia University di New York, affermò che è possibile (e lecito) immaginare universi alternativi a quello che conosciamo: per esempio, un universo in cui l’interazione causale potrebbe non esistere. Ricordo di Lorenzo Infantino
Lo scorso 18 gennaio 2025 è improvvisamente mancato Lorenzo Infantino, noto studioso di Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università Luiss di Roma. Considerato uno dei maggiori interpreti del pensiero liberale classico, era nato a Gioia Tauro nel 1948. Si tratta quindi di una scomparsa prematura, che lascia un vuoto nel panorama accademico e culturale italiano e internazionale. Laureatosi nel 1972 in Economia all’Università di Siena, Infantino conseguì nel 1975 il diploma presso la Scuola di Specializzazione in Sociologia allora diretta, presso la Luiss, da Franco Crespi. Nel 1983 iniziò a insegnare nella Facoltà di Scienze Politiche della stessa Luiss. Parimenti interessato all’economia e alla filosofia politica, ha collaborato con Dario Antiseri alla fondazione presso la Luiss del celebre Centro di Metodologia delle Scienze Sociali, disciplina di cui in seguito ottenne la titolarità. Molto attivo anche all’estero, insegnò alle Università di Oxford (Linacre College) e alla Sorbona di Parigi. Mentre Dario Antiseri portava in Italia il Pensiero di Karl Popper, Infantino si dedicò in particolare alla diffusione delle tesi della scuola economica austriaca, nella fattispecie di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Il rischio nei processi decisionali
Decidere è un atto al quale è impossibile sottrarsi durante la vita; la parola ha un notevole peso semantico, proviene dal latino de-cidere, tagliar via, mozzare. Un processo decisionale comprende motivazioni, obbiettivi da raggiungere, i mezzi per ottenerli e valutazione di eventuali rischi. Il rischio indica la possibilità di subire o provocare danni in seguito alla decisone intrapresa. L’origine del termine è incerta; secondo alcuni autori, deriva dal greco bizantino rhizikò (sorte, destino) e dal latino medievale riscus e risigus; secondo altri dall'arabo rizq (sec. XII) in cui è richiamato il concetto di un onere non monetario. Nella vita quotidiana le decisioni sono di solito facili e il rischio è basso o praticamente assente, come invitare amici a cena. In quelle di maggior impegno il rischio è sempre possibile, ma può essere ridotto se entra in funzione il pensiero “lento”, riflessivo, consente di valutare meglio il rapporto rischio/beneficio piuttosto che il pensiero “rapido.” La distinzione è stata formulata da Daniel Kahneman, psicologo israeliano, premio Nobel per l’economia nel 2002. Johann Georg Ritter von Zimmermann ovvero pensieri dalla solitudine
Nella notte fra il 30 novembre e il 1° dicembre 1827 si spegneva in Lodi, all’età di appena 29 anni, colto dalla tisi polmonare, Carlo Villa, nato a Pavia nel 1798, professore di Umanità per sei anni nel Ginnasio Liceo Imperiale di Lodi e prima ancora per due anni in quello di Sondrio. Uomo di grande ingegno e cultura ma pure di somma modestia, è ricordato unicamente per aver tradotto l’opera sulla solitudine di Giangiorgio Zimmermann, edita a Milano nel 1834 come nono volume della collana “Biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana”, dal titolo “Morali Influenze della solitudine sopra lo spirito ed il cuore”. La traduzione di Villa compare pure nei due volumi dell’edizione napoletana del 1827, anno della sua morte, pubblicati a spese del Nuovo Gabinetto Letterario. Una riedizione delle “Morali influenze della solitudine” tradotta da Villa (non anastatica) è stata curata di recente da Maurizio Pirro dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, con ampia postfazione del medesimo curatore.1 «In questa mortal vita, da mille guai travagliata, nella quale ancora per poco la mia ormai cadente età mi riserba, stretto dal legame dé doveri, e dal grave Carico degli affari quasi schiacciato, niuna consolazione, niun diletto sento che mi rimane fuorché la rimembranza de’ bei giorni goduti nella fuggita mia giovinezza… e assai volte eziandio (persino) il conversare cò trapassati.» Leggi tutto: Johann Georg Ritter von Zimmermann ovvero pensieri dalla solitudine Storia del tricolore italiano
La storia del Tricolore italiano è convenzionalmente datata al 7 gennaio 1797, con la sua prima adozione come bandiera nazionale da parte di uno stato italiano. Il Tricolore italiano nella forma attuale deriva non direttamente dalla Repubblica Cispadana del 1797, ma dal Regno di Sardegna, che lo adottò come bandiera nel 1848. La bandiera della Repubblica Italiana è praticamente identica, soltanto con la rimozione dello stemma sabaudo. La vecchia bandiera della Cispadana era infatti in origine a bande orizzontali anziché verticali. In verità le origini remote del Tricolore sono di gran lunga anteriori al 1848 ed al 1797. Franco Cardine, illustre medievista, ha osservato che «i tre colori della nostra bandiera sono […] alla base della liturgia cattolica: e bianco, verde, rosso figurano fin dal medioevo come rispettivi simboli delle tre virtù cardinali: fede, speranza, carità», tanto che «questi erano i colori preferiti del secolo XV per le insegne e gli emblemi». Insomma, tale combinazione cromatica era impiegata già nel Tardo Medioevo, come minimo, per le insegne. Cardine lo riconosceva pur in un articolo giornalistico in cui neppure velatamente polemizzava contro il Tricolore quale simbolo repubblicano e ‘giacobino’. In verità si può risalire ancora più indietro al Medioevo per l’associazione simbolica di bianco, rosso, verde. Scrisse Renato del Ponte, storico d’impostazione tradizionalista romana e studioso di storia delle religioni e del simbolismo:
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